Le tante sfaccettature del design, si scoprono conoscendo i protagonisti che operano nel settore. Questo è quello che il nostro viaggio nel design contemporaneo, Design Hero, ci consente di fare. Succede così di conoscere designer affermati, che ci parlano del loro lavoro e della loro attività. Dei progetti nuovi, ma anche di quelli passati, che in alcuni casi sono già storia del design. E’ caso di Matteo Ragni, lo abbiamo incontrato nel 2016, al Salone del Mobile di Milano. Per l’occasione, presentava un nuovo progetto per Plust.
Noi, lo abbiamo incontrato ed è sta l’opportunità di capire ancora una volta che il design è ricerca ma è anche responsabilità ed una continua riflessione sul vivere quotidiano.
- Raccontaci il tuo progetto disegnato per Plust, come nasce?
La collaborazione con Plust risale ormai al 2005 – 2006 con la prima collezione Plust creata dallo studio Joe Velluto. Negli anni le nostre strade si sono un po allontanate, poi l’anno scorso abbiamo dato vita ad una collezione che si chiama Frozen composta da una famiglia di prodotti legati al mondo dell’outdoor, con una particolare attenzione al bancone da bar per eventi.
Il concetto fondamentale di Frozen è il risultato di un ragionamento molto semplice dato dal materiale che ha delle caratteristiche eccezionali dal punto di vista delle prestazioni per esterni. Può essere retro illuminato e inoltre stando all’esterno potrebbe soffrire dell’invecchiamento e rischiare di ammaccarsi con la movimentazione velocemente ecc…
Allora il tema è stato quello di dare struttura una sorta di “plissettatura”, che si struttura sulla forma e in qualche modo cela eventuali ammaccature.
Da qui li è nata la famiglia della collezione: dal bancone abbiamo fatto i tavoli, i tavoli alti, la sedia, la poltroncina da esterni, gli sgabelli. E così dopo un anno la famiglia è cresciuta aggiungendo la bottigliera retro illuminata lo sgabello con 4 gambe e la lampada, una sorta di presenza luminosa che non vuole scimmiottare la abat – jour classica, ma è essere una presenza discreta per illuminare parti esterni che interni.
- Molti designer ci hanno detto la plastica non è così semplice da lavorare, eppure sembra si possa fare qualsiasi forma e così?
La plastica dal mio punto di vista è un materiale fantastico perchè puoi creare qualsiasi forma immaginabile con più o meno complicazioni. E’ un materiale molto duttile che ricorda un po i castelli che si facevano da piccoli. Quando lo spieghi agli studenti per far capire come funziona il procedimento dello stampa basta fare l’esempio della spiaggia e del secchiello.
Nel caso della stampa rotazionale che è la tecnologia usata per questi oggetti molto voluminosi, il procedimento è molto vicino a quello della ceramica . Viene fatto lo stampo, poi si apre e vengono queste forme bellissime. Io credo la plastica faciliti molto la creatività, anzi, avvolte bisogna che stare un po attenti a frenare l’estro creativo per riportarci sulla giustezza del prodotto.
- Allora perchè c’è stata negli ultimi anni l’esplosione della stampa 3D se già con la plastica si può già fare tutto, come vedi il fenomeno?
In realtà la stampa 3D risolve un grosso problema della plastica, che è quello dello stampo, il costo più grosso.
Quindi siccome non ci sono più i numeri e il mercato di una volta, molte aziende approcciano al mondo della produzione industriale non più investendo centinaia di milioni di euro su uno stampo a iniezione o rotazionale, ma fanno delle piccole serie. La cosa bella della stampa 3d è il fatto che puoi personalizzare anche piccolissime serie con un costo di investimento molto basso, perchè basta comprare il materiale e una stampante 3D.
- Tu hai fatto progetto anche un progetto di autoproduzione come TobeUs, come è nato il progetto èe come si è evoluto?
L’idea è nata molto banalmente come capita a molti designer quando diventano papà . Non ne potevo più di macchinine esauste usa e getta allora a un certo punto mi sono fatto una domanda: “io come designer che cosa voglio lasciare ai miei figli?”, mi sono chiesto se stavo facendo il bravo papà.
Mi sono reso conto che sarei dovuto partire con educare i nonni, i genitori e poi a ricaduta ai bambini, regalando ai bambini un’esperienza totale, che non è solo quella di giocare ma anche di annusare un prodotto, sentire che può cambiare sotto le loro mani che si può personalizzare come una lavagna tridimensionale. E’ stato uno sfogo di un papa designer e poi è diventato un manifesto.
Non volevo fare autoproduzione, perchè l’ho sempre vista come un’attività che fa rima con disperazione di noi designer che spesso e volentieri frustrati dal fatto che le aziende non ci danno credito, perchè siamo più designer che aziende che possono produrre . Il progetto è diventato invece una piccola produzione, una vera auto- produzione perchè produrre vengono prodotte delle auto da un artigiano che le realizza con passione. L’idea è quella di tornare a fare il vero Made in Italy, aumentando la vita del prodotto.
Quindi non si compra un oggetto da consumare, ma si trasmettono dei valori.
- Tu hai progettato insieme a Giulio Iacchetti “moscardino” diventato un pezzo da museo, una icona. Quando lo disegnavate pensavate che avrebbero avuto il successo che ha avuto?
Assolutamente no. E’ stato proprio un moto quasi emotivo, dato dalla grande ironia che contraddistingue sia il mio lavoro che quello di Giulio e anche un po di leggerezza, un po di “lievità” alla Calvino, cioè la voglia di non prendersi troppo sul serio, nella giustezza del prodotto.
Io credo che Moscardino, sia stato il prodotto giusto con l’azienda giusta al momento giusto.
Era il momento in cui ci si interrogava sul perché la gente avesse così bisogno di stare fuori a sbarcare la serata con un aperitivo da 5 euro. Se fosse stato fatto 10 anni prima, non avrebbe avuto quel successo e 10 anni dopo sarebbe stato scontato.
- Hai mai avuto il pensiero che qualche pezzo che hai fatto fosse uscito troppo presto?
Si, troppo presto si ed anche un po troppo tardi. Nel senso che anni fa ho fatto un progetto per FIAM, una mensola con un telo da proiezione integrato. Ai tempo erano gli anni in cui i televisori diventano sempre più piatti e l’azienda mi ha chiesto nel brief un porta televisore. Io sono andato un po oltre, ho pensato che siccome le tv saranno sempre più piccole e piatte un porta televisore non servirà, lo potrai appendere al muro. Quindi si smaterializzerà anche il televisore diventerà un videoproiettore e noi avremo bisogno solo di un muro bianco.
Quindi abbiamo brevettato questo sistema che si chiama Fly. Da un certo punto di vista era molto presto perché i proiettori aveva un costo molto alto ma dall’altro, dopo un paio di anni di mercato, stava prendendo un piede. Poi ad un certo punto c’è sta una flessione perché le televisioni stavano costando molto meno rispetto ai video proiettori, e inoltre l’alluminio di cui era fatta questa mensola la materia prima aveva dei costi. Quindi era presto per un certo mercato, ma non so se presto o tardi, era un altro tempo…
- Parlando con altri designer scopriamo che spesso sono architetto e questa tipo di formazione è ancora fondamentale per il design italiano. Tu che formazione hai avuto e quanto ha influito nel tuo mestiere?
Anche io sono architetto, ma in realtà quello da una buona preparazione architettonica umanistica e quello che poi fa un design italiano che non vuol dire fare i campanilisti, perché poi il mercato è molto più vasto. Quello che conta è l’attitudine che ognuno possiede, a prescindere dalle scuole. Io ho insegnato in tante scuole e sono sempre più convinto che queste servono nel momento in cui diventano degli hub per condividere delle esperienze. Gli incontri che fai nelle scuole sono importanti sia con i docenti come studente che con i tuoi colleghi.
Che tu abbia o meno una scuola blasonata, questo è un contorno.
La più bella esperienza che ho fatto di workshop nella mia vita l’ho fatta a Beirut in una facoltà crivellata da colpi di pistole con i banchi “sconquassati”, qui dopo una settimana è venuta fuori una qualità di lavoro incredibile data proprio dalla qualità umana e non data dal contesto della scuola.