BUILDING presenta, dall’8 novembre 2023 al 27 gennaio 2024, la mostra collettiva Glitch, un progetto espositivo, a cura di Chiara Bertola e Davide Ferri, che presenta una selezione di circa trenta opere pittoriche di dieci artisti italiani e internazionali di generazioni diverse: Simon Callery, Angela de la Cruz, Peggy Franck, Pinot Gallizio, Mary Heilmann, Ilya & Emilia Kabakov, Andrea Kvas, Maria Morganti, Farid Rahimi, Alejandra Seeber.
Talvolta accade che nel tessuto regolare e omogeneo della realtà si manifestino delle smagliature, come degli strappi superficiali che rivelano la presenza di una dimensione altra. La saturazione e il tutto pieno che caratterizzano la nostra esistenza improvvisamente si disgregano, lasciando il posto a spiragli da cui filtrano segnali di “un’energia dell’esistenza”, come suggerisce il filosofo François Jullien.
Qualcosa di simile si verifica in pittura, quando la precisa coincidenza tra immagine e supporto viene meno o quando la pura materialità di una pittura eccede, lasciando trapelare un’inedita vitalità. Improvvisamente, da questa disarticolazione qualcosa si fa strada agli occhi dello spettatore senza annunciarsi, qualcosa che pur potendo passare inosservato apre una breccia, una crepa che spalanca un’altra vista e un’altra tonalità del pensiero. L’attenzione va dunque a una pittura la cui verità non consiste nella rappresentazione e nella sua organicità, ma in un’idea di immagine pittorica che negozia con supporti e formati differenti, assecondandone la presenza oggettuale e le articolazioni materiali.
La mostra, che include indifferentemente lavori figurativi e astratti, rinvia dunque a un’idea di “mera pittura” – nel senso di “bassa”, “materiale” – che può giocare con l’espressione “vera pittura”, o con l’idea di verità in pittura che ha occupato da sempre le riflessioni sul medium.
Le suggestioni che ne derivano possono affondare le loro radici in alcune ricerche pittoriche della seconda metà del Novecento, quelle ad esempio di alcuni protagonisti dell’astrazione post-pittorica degli anni Sessanta e delle ricerche degli anni Settanta (Radical Painting, Pittura Pittura e Support Surfaces), nei termini di un diffuso desiderio di oggettività e conseguente sparizione della soggettività (cioè di sparizione dell’autore a favore della presenza dello spettatore), di riflessione del linguaggio attorno ai suoi elementi primari (formato, misura, supporto, colore, “un colore che non imbelletta”, come dice Maria Morganti), il cui esito è un oggetto pittorico che nega qualsiasi carattere narrativo, rappresentativo e illusionistico e afferma la sua presenza senza significare altro che se stesso.
Lungo il percorso della mostra, dunque, la pittura appare nella sua più mera essenzialità con la fecondità di un’incrinatura, di uno sfasamento, provocato dallo scardinamento di un’abitudine alla convenzionalità della visione. Viene generato così uno scarto che rimette in moto una sorta di vitalità energetica al suo livello primordiale, quotidiano – nel senso del ritmo e delle tracce diarie del tempo – e artigianale – il piacere del fare a mano.
Se dunque la consuetudine non ha mai portato la pratica artistica molto lontano, allora cercare un inciampo nella rappresentazione diventa una condizione necessaria per spingere l’arte verso una dimensione di vitalità. Una smagliatura all’interno del sistema saturo e compatto del tutto noto e prevedibile può dunque rivelarsi uno spazio fertile di libertà, in cui la vita può scorrere, spaziare, completarsi e rinnovarsi.